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IL PIANTO DI DIO – don Emilio Zeni

Non so se sia teologicamente corretto, ma credo che il pianto del Signore sia vero, a volte inconsolabile. È il pianto del padre che si vede respinto dai figli costretto ad assistere, impotente, allo sbandamento delle sue creature, ad amare senza essere richiamato. Se è vero, come si legge nel Vangelo, che si fa più festa in cielo per un peccatore che ritorna come non pensare, tristemente, che ci sia anche il pianto per un figlio che sbatte la porta e se ne va?

Ho letto una intervista rilasciata da una scrittrice d’America dopo la tragedia delle torri gemelle a New York: “Perché Dio permette tragedie di tanta efferatezza?”. Il brano mi suggerisce un verosimile lamento di Dio: “O uomo, figlio mio, non posso farci nulla, purtroppo! Hai cancellato il mio nome dai tuoi ordinamenti civili perché ti infastidivo, mi hai messo fuori dalle tue scuole perché inibivo la tua libertà, mi hai espulso dai tuoi parlamenti come presenza inopportuna, mi hai escluso dalla famiglia perché non gradivi i miei interventi per far rivivere l’amore, mi hai ignorato nei laboratori della scienza come elemento di disturbo, hai riso ai miei richiami all’amore, al perdono, al rispetto della vita. Persino la mia immagine ti infastidisce e l’hai tolta dalle pareti della tua casa… Io, che ti ho creato libero perché, liberamente amandomi, il tuo amore fosse vero, sono coerente e rispetto la tua libertà. Mi hai messo da parte! Altro non posso fare se non soffrire e piangere, in silenzio, con te…”

È il lamento di Dio, spassionato e sincero, in fragile linguaggio umano, se vogliamo, ma che ci obbliga ad un interiore silenzio.

Anche Gesù, nella profetica visione della imminente distruzione di Gerusalemme, si lamenta: “Gerusalemme tu che uccidi quelli che Dio ti manda! Quante volte ho voluto riunire i tuoi abitanti attorno a me, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali! Ma tu non hai voluto” (Mt, 23,37). E la liturgia del Venerdì Santo ripropone la drammatica ingratitudine dell’uomo: “popolo mio, ti male ti ho fatto, in che cosa ti ho provocato? Perché mi fai soffrire? Dammi una risposta…”

Ingratitudine e presunzione, con tutte le aberrazioni che ne sono seguite, risalgono agli albori dell’umanità e continuano oggi, nello scellerato tentativo di mettersi al posto di Dio e riscrivere le leggi della vita e della felicità. Ne sono nati i mostri di morte e abissi di disperazione. Un pianto quello di Dio, che ha il tono di uno sfogo, e diventa paterna risposta ai nostri umani e assurdi lamenti, invito a smettere ogni atteggiamento risentito è ingiusto nei suoi confronti.

Ma cela anche una speranza, una mano tesa all’uomo perché si lasci salvare. Alla antica chiesa di Laodicea, come si legge nell’Apocalisse, il Signore rivolge un amaro rimprovero, sembrerebbe fatto per noi, uomini del 2000: “Voi dite: siamo ricchi, abbiamo fatto fortuna, non abbiamo più bisogno di nulla… ma non vi accorgete di essere dei falliti, degli infelici, poveri e nudi… cambiate vita, dunque!” E aggiunge: “Ascoltate! Io sto alla porta e busso. se mi aprirete, io entrerò e ceneremo insieme…“(Ap 3,17 SS).

No, estromesso in mille maniere dalla nostra vita, Dio non se ne è andato! A noi aprirgli la porta. E sarà convito e sarà festa. Sarà Risurrezione, sarà Pasqua.

In questa prospettiva, i nostri auguri Pasquali agli affezionati lettori.