Il culto dei morti – Adriana Perillo

Il mese di novembre è associato al ricordo dei nostri defunti e al rito della visitazione dei cimiteri, per deporre fiori e lumini sulle tombe e pregare.

Molte persone si spostano anche da luoghi lontani per poter salutare i propri cari estinti, quasi si senta il bisogno di assicurare loro la memoria, curando l’aspetto delle tombe o dei loculi per renderli meno tristi.

Il 2 novembre i cimiteri sono aperti per accogliere la gente che, molto più numerosa del solito, si sparge per i viali in cerca delle proprie” radici”.

Certamente questa pratica commuove ed emoziona molto e il ricordo di chi non c’è più si ravviva, si acuisce il dolore per la perdita ma riempie ancora i cuori con l’amore che legava alle persone trapassate.

Ogni paese, pur piccolo, dedica una parte del proprio territorio al cimitero, e nelle grandi città sorgono anche diversi cimiteri per ospitare i defunti. Alcuni offrono interessanti aspetti estetici nelle tombe costruite da veri artisti.

Un tempo i campisanti erano ospitati dentro le mura delle città, nei conventi, nelle chiese. Nel 1804 Napoleone emanò l’editto di Saint Cloud con cui obbligava la sepoltura dei morti fuori dalle mura cittadine, le lapidi dovevano essere tutte uguali e senza eccessive decorazioni. Questo editto fu influenzato dalle idee di uguaglianza della rivoluzione francese ma anche per ragioni igieniche.

Il nostro grande poeta Ugo Foscolo era contrario a questo anonimato delle tombe perché mortificava la memoria degli uomini gloriosi che con le loro opere avevano reso il proprio paese illustre e che, con il loro esempio, potevano infiammare i cuori degli uomini e portarli all’emulazione (v. I Sepolcri).

Ma quando è nato il culto dei morti? Possiamo dire che l’uomo, sin dal paleolitico, esprime una forma di rispetto verso il defunto, facendo trapelare un tipo di pensiero rivolto non solo ai propri bisogni fisici ma anche a interessi superiori, qualcosa di simile a una specie di spiritualità.

Sappiamo poco delle usanze funebri dell’età paleolitica, certamente diverse a seconda delle località. I cadaveri venivano bruciati o buttati nell’acqua dei fiumi o nei mari, nascosti nelle cavità degli alberi, alcuni mangiavano il cervello dei defunti forse per avere con sé qualcosa di loro.

Solo all’epoca dell’uomo di Neandertal si diffuse l’uso di seppellire i morti e spesso accanto al cadavere venivano messi oggetti utili alla vita quotidiana, forse perché si sperava in una nuova vita dopo la morte.

Circa 9000 anni fa si sviluppò la religione e il vero culto dei morti. Nel neolitico si inizia a costruire tombe dove il cadavere veniva ricoperto di terra e murato in una camera interna.

Le tombe dei personaggi importanti di un villaggio divennero luoghi di ritrovo del popolo per le cerimonie religiose e le sepolture sontuose erano motivo di orgoglio.

Le piramidi sono la testimonianza dell’importanza del culto dei morti. Gli Egiziani consideravano la morte come il passaggio ad un’altra vita del defunto e per questo avevano studiato il modo di conservare i cadaveri con la mummificazione dopo la quale i corpi venivano posti in vari sarcofagi in posa eretta e circondati da oggetti per la vita quotidiana, statuine raffiguranti i famigliari, il cibo, le armi.

Questi sono solo pochi accenni sull’antico culto funebre ma in ogni nazione ci sono testimonianze e ritrovamenti fatti dagli studiosi archeologi e antropologi che confermano tali abitudini.

Lo studio di questo argomento è vasto ed interessante. Ancora oggi i riti si differenziano tra i popoli ma indicano tutti il grande legame che unisce i vivi e i morti, ovunque e sempre, attraverso il ricordo perpetuo che ci viene stimolato visitando i cimiteri.

Intervista 3 – Silvia Falcione

Con i miei studenti di terza e quarta liceo delle scienze umane abbiamo affrontato il fenomeno della migrazione spaziando da quella di oggi fino a quella dei loro nonni durante la grande migrazione interna italiana da sud verso nord, in particolare verso Torino e la Fiat.

Ho chiesto loro di realizzare delle interviste libere sulle storie di vita dei migranti che conoscevano. Hanno raccolto storie molto interessanti che vi proponiamo.

Intervista realizzata da Federica, 16 anni

Sorprendentemente migrano anche gli italiani. Qui di seguito vi presento l’intervista che io, Federica, studentessa del terzo anno del Liceo delle Scienze Umane – indirizzo Economico Sociale, ha svolto ad una amica di famiglia, Daniela, ora
quarantasettenne, giunta da Palermo nel 2007 e trasferitasi a Torino, nel quartiere Mirafiori.

All’età di trentun anni ha intrapreso questa nuova avventura spinta dal desiderio di realizzare i suoi sogni. Ecco il suo breve racconto.

FEDERICA: “Perché hai deciso di partire?”

DANIELA: “Quando ho deciso di partire ero già sposata con Dario e, contemporaneamente alla decisione di partire, abbiamo scoperto che ero incinta di Alessio, però abbiamo deciso lo stesso di avventurarci in questa nuova impresa perché fondamentalmente Dario voleva un po’ modificare la posizione lavorativa e lì dove eravamo, cioè a Siracusa, non c’erano molte prospettive.

Io volevo studiare psicoterapia, mi interessavano varie scuole di specializzazione, alcune delle quali erano a Torino, allora abbiamo pensato di unire le due cose: lui di accettare una proposta che gli è arrivata da una società di Torino e io di iscrivermi a una scuola di specializzazione qua. E così siamo partiti.”

FEDERICA: “Che viaggio hai fatto?”

DANIELA: “Siamo partiti in due maniere diverse. Dario è venuto prima per mettere su casa, visto che io ero incinta. È partito in nave per potersi portare la macchina e alcune prime cose che potessero servirci. Inizialmente ha vissuto in albergo e poi ha cominciato a cercare una casa per noi. Quando ha trovato un piccolo appartamento arredato, in una in una zona tutto sommato abbastanza vicino al suo lavoro, l’ho raggiunto io. Lui è partito a giugno, io sono arrivata a settembre e in questa piccola casa già arredata di corso Traiano qui è iniziata la nostra vita”.

FEDERICA: “Com’è stata l’accoglienza nel luogo di arrivo?”

DANIELA: “Quando dicevo giù che sarei venuta a Torino mi dicevano tutti: “Noooooo, ma cosa ci vai a fare? Una città grigia, non c’è il mare, tu, in una città dove non c’è il mare, cosa vai a farci?” e non mi aiutavano molto, però non mi sono fatta demoralizzare.

Sono partita con l’immagine di Torino nella mia testa come di una città grigia, dove ci fossero soltanto fabbriche. Mi dicevano: “A Torino c’è solo la Fiat!” e io ci credevo perché non avevo mai visto Torino.

Non avevo mai fatto una visita turistica qui a Torino. Quando poi sono arrivata, in realtà quello che ho pensato è stato: “M*****a che bella città!”, nel senso che l’ho trovata veramente bella, regale, particolare e mi è piaciuta moltissimo.

E a poco a poco diciamo che mi sono abituata all’idea di una città dove non ci fosse il mare, anche perché ho scoperto che c’è la montagna, che il mare non è così distante, e che qua si vive bene.

Alessio è nato qui. Quindi io sono arrivata a settembre, lui è nato a dicembre e poi ci siamo trasferiti nel quartiere dove viviamo tuttora, che poi un po’ è il quartiere che ci ha accolto.

L’accoglienza….com’è stata l’accoglienza inizialmente? Inizialmente …..ehm,…chi mi ha accolto a Torino sono stati degli amici siciliani che già vivevano qui. Quindi diciamo che ho avuto un po’ un “cuscinetto”.

Sono state le persone che abbiamo frequentato all’inizio quando ci siamo trasferiti, per cui c’è stata un’accoglienza da concittadini del Sud e a poco a poco abbiamo cominciato a familiarizzare anche con le persone del luogo.

È stata un’accoglienza lenta. C’è voluto qualche anno.

È stata favorita dai bambini, nel senso che ci si incontrava al parco con altri genitori che portavano i loro figli o in chiesa, oppure fuori dalla scuola. E mentre si guardava giocare questi bambini o li si aspettava, si chiacchierava.

E così sono nate le prime amicizie. Noi siciliani abbiamo un temperamento un po’ più focoso: a noi basta incontrarci due volte e poi la terza a invitarci reciprocamente a casa propria, “Vieni a cena da mE”, “Vieni a bere un caffè”, eccetera.

Qui quello che ho notato inizialmente è che questo non succedeva: vedevo le persone, la prima, la seconda, la terza, l’ottava, la decima volta, ma non scattava mai un invito e neanche da parte mia, io mi adattavo un po’ a questa cosa.

Quello che ho visto rispetto ai torinesi e che, nonostante questo “riscaldamento” lento, poi in realtà quando ti aprono le porte del loro cuore, in qualche modo sono veramente speciali e allora, amicizie che sono scattate poco a poco, poi sono diventate solidissime nel tempo.

Sono persone che sono diventate per me punti di riferimento. Adesso abbiamo amici torinesi, proprio torinesi che sono dei punti di riferimento per noi.

Lo stesso quartiere dove viviamo, è diventato un po’ un punto di riferimento, una comunità di cui ci sentiamo parte, per cui non ci sentiamo più, diciamo “ospiti” o quelli arrivati da poco, in qualche modo quelli di “fuori”. Ci sentiamo ormai parte di questa comunità.

Ehm…….Che cosa ti posso dire in siciliano? Ti posso dire che quando qualcosa finisce nelle mie parti si dice: “Agneddu e sucu e fini’ u vattiu” cioè letteralmente: “Agnello e sugo ed è finito il battesimo”.

FEDERICA: “Secondo te quali sono le differenze tra il Piemonte e la Sicilia rispetto allo stile di vita?”

DANIELA: “Ricordo ancora le cose che inizialmente mi hanno colpito del modo di vivere che ho trovato qua a Torino. Allora… la cosa che proprio mi sconvolgeva inizialmente era il fatto che i panifici alle 06:30 del pomeriggio non avessero più pane e chiudessero bottega, perché da noi alle 18:30 i panifici sono ancora molto attivi, i forni sono interni, non sono solo delle rivendite, ma proprio preparano loro il pane e vanno avanti fino alle 09:00 di sera, perché quando si smette di fare pane si cominciano a preparare le pizze e tutta una serie di prodotti da tavola calda che si vendono fino anche alle 21:00.

In generale notavo questo, la differenza negli orari di apertura e chiusura dei negozi probabilmente seguiva, segue le temperature. Quando sono arrivata a Torino era ancora una Torino molto fredda, nevicava, iniziava a nevicare a novembre, fino a Marzo c’era la neve depositata per le strade, cosa che adesso effettivamente non succede più.

Però allora, quando sono arrivata sì, e questo era sicuramente una grande differenza con le mie città siciliane e ovviamente questo determinava il fatto che i negozianti non potessero tenere aperto fino a tardi perché, a un certo orario, si gelava fuori e mentre da noi c'è una temperatura gradevole fino a tardi e questo permette uno stile di vita forse un pochino più improntato all’aperto.

E anche ho notato che, per esempio, Torino è una città ricca di quartieri, di giardini dove è possibile praticare dei giochi all’aperto, cosa che per esempio le nostre città non hanno; da noi per stare in piena natura di solito si va al mare.

Fondamentalmente quello è lo sbocco naturale che hanno le città siciliane, mentre qui invece c’è una grande attenzione proprio alle aree verdi della città. Ed è una cosa che mi è piaciuta molto e che ti dico mi ha anche permesso e favorito lo scambio con le persone del luogo: appunto io portavo i bambini a giocare nei parchi e così facendo ho conosciuto tante persone.

Il nostro stesso quartiere è ricco e pieno di aree verdi che consentono molto la socializzazione. Poi altra differenza, ovviamente rispetto al cibo, la cucina piemontese è stata una scoperta: non la conoscevo la tradizione degli agnolotti; ho iniziato a mangiare con gusto la carne, che è una cosa che….ehm… ecco, in Sicilia non mangiavo tanto, non mi piaceva particolarmente. Qui l’ho scoperta, mi piace molto.

E poi si, il confronto con le persone amanti della montagna. Ti dico, questa è stata un’altra grande differenza che mi hanno fatto scoprire anche un po’ la montagna, portandomi a fare passeggiate e portandomi a conoscere la montagna sia quando innevata sia quando è verde, in estate
e quindi qua abbiamo scoperto per esempio la bellezza del trekking e delle passeggiate in montagna.

Bene o male allora credo che siano state queste le differenze principali. Ovviamente, ci colpiva qualcosa anche rispetto il dialetto no? E ci colpivano delle frasi tipiche piemontesi, tipo il classico: “Neeee”, per esempio che noi non diciamo oppure “Facciamo che andare”, che noi non diciamo; ci divertivamo un po’ a trovare questa differenza nel linguaggio, anche se non siamo mai entrati veramente a contatto col dialetto piemontese, perché è veramente parlato poco, pochissimo e quindi è difficile per noi imbatterci ancora in qualcuno che lo parli.

Aggiungo solo una cosa Fede, perché un’altra cosa che ricordo e mi colpì moltissimo di Torino fu il suo silenzio, io venivo dal caos di Palermo dove si sentiva il rumore in ogni angolo delle strade, in qualunque strada della città, sono arrivata qua, mi sembrava una città silenziosissima, anche quando ero piena di gente.

Non c’era mai quel caos da cui venivo io e questo mi colpì tantissimo allora”.

Torino, 14 Aprile 2023

Di Buon Mattino (Tv2000) – Le catacombe di Santa Cristina a Bolsena

Le catacombe di Santa Cristina a Bolsena

TV 2000, durante il programma Di Buon Mattino, ha presentato le catacombe di Santa Cristina a Bolsena.

Mons. Pasquale Iacobone, Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, introduce l’argomento.

Intervista 2 – Silvia Falcione

Con i miei studenti di terza e quarta liceo delle scienze umane abbiamo affrontato il fenomeno della migrazione spaziando da quella di oggi fino a quella dei loro nonni durante la grande migrazione interna italiana da sud verso nord, in particolare verso Torino e la Fiat.

Ho chiesto loro di realizzare delle interviste libere sulle storie di vita dei migranti che conoscevano. Hanno raccolto storie molto interessanti che vi proponiamo.

Intervista realizzata da Elisa, 17 anni

Ecco l’intervista di Leticia Moreira Passamani Marqués, che racconta della sua storia di vita di quando è migrata in Italia.

La prima domanda che ho posto a Leticia è stata: “Perché hai deciso di partire?” La sua risposta è stata:

“Ero molto piccola, avevo solo 5 anni quando sono arrivata in Italia. Io, mia mamma e mia sorella abbiamo deciso di partire dal Brasile all’Italia principalmente perché mia madre lavorava al Consolato italiano in Brasile e quindi per motivi lavorativi era più comodo trasferirsi qui.

Inoltre lì la vita è molto più cara, c’è un’enorme disuguaglianza tra le poche persone ricche e i tanti poveri e la nostra era una famiglia che aveva i soldi solo per mangiare, per curarsi in caso di necessità attraverso i servizi sanitari e per pagare le spese e i servizi essenziali alla vita.

Siamo venute in Italia per cercare condizioni di vita migliori, per allontanarci dalla realtà spesso violenta del Brasile, per vivere in un paese più sicuro e per avere una buona istruzione.

Un altro motivo per il quale siamo migrate era mia nonna, che era già venuta due volte in Italia e alla terza aveva deciso di viverci definitivamente e di richiedere quindi il permesso di soggiorno.”

La seconda domanda che le ho posto è stata: “Che viaggio hai fatto?” Lei ha risposto cosi:

“Ho fatto un viaggio di due ore partendo da Espirito Santo, stato sudorientale del Brasile in cui sono nata, fino a San Paolo. Da San Paolo ho fatto otto ore di aereo fino a Torino Caselle.

È stato un viaggio molto lungo e molto faticoso, soprattutto per una mamma sola con due bimbe piccole che si stava trasferendo in un luogo così distante. Era luglio e faceva molto caldo, da quel che mi ricordo, avevamo viaggiato in comodità e in sicurezza.

Il viaggio, la partenza dal Brasile e l’arrivo in Italia, avevano richiesto molti controlli e sopratutto la validità del passaporto brasiliano. Finalmente, dopo un viaggio lunghissimo, arrivammo a Torino”.

La terza domanda che le ho posto è stata: “Come è stata l’accoglienza nel luogo di arrivo?E lei mi ha detto:

“Nonostante fossi molto piccola all’inizio non fu semplice, sentivo il distacco dal luogo in cui ero nata e cresciuta fino ad allora e la lontananza di mio papà, che essendo un militare era ed è tutt’ora rimasto lì per lavorare.

Ai primi tempi non conoscevo nessuno e il non sapere la lingua mi impediva di fare amicizie, però ero tranquilla poichè avevo con me i famigliari più stretti e dopo tanto tempo avevo rivisto la nonna.

La malinconia iniziò a scomparire del tutto quando iniziai la prima elementare. Mi ricordo che fin da subito le maestre e i compagni cercarono di integrarmi nella classe per non farmi sentire a disagio, ma solamente dal terzo anno iniziai a parlare bene l’italiano in modo tale da poter comunicare con gli altri.

Da lì a poco iniziai a socializzare, a fare le prime amicizie e a inserirmi i nuovi contesti come ad esempio praticare danza con altre bimbe della mia età.

Crescere in un paese che non è quello in cui sono nata è stata una dura prova per me stessa e per la mia famiglia.

È stato difficile soprattutto per l’adattamento al diverso stile di vita e per la difficoltà nel parlare l’italiano, che mi ha ostacolato nello studio a scuola e mi ha impedito di esprimermi in qualsiasi contesto sociale.

Appena siamo arrivate a Torino abbiamo fatto la richiesta di permesso di soggiorno, dopo 20 giorni la proposta è stata accettata e ci hanno rilasciato così i documenti.

Ormai ho 17 anni, vivo in Italia da 12 anni e sono a tutti gli effetti una cittadina italo-brasiliana, come lo è tutta la mia famiglia.”

Così Leticia, con le lacrime agli occhi per l’emozione, conclude il racconto della sua storia di vita.

Riva dà l’addio a Willi, l’anima della “Casetta”

Riportiamo di seguito l’articolo dedicato alla scomparsa di Cosimo “Willi”.

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Riva dà l’addio a Willi, l’anima della “Casetta”

Aveva il dono di cercare e trovare il bello.

Così viene ricordato CosimoWilliCuoco, mancato il 1 giugno a 68 anni: lascia la moglie Piera Marocco, il figlio Emanuele e la “casettadi San Domenico Savio di cui era direttore.

“Willi” era conosciutissimo in paese:

Perché aveva fatto parte del gruppo di giovani che a San Giovanni di Riva aveva ristrutturato la “casetta” natale di san Domenico Savio – lo ricorda il sindaco Lodovico Gillio – Con una grande opera di volontariato, cui avevo collaborato anche io, quella che era una cascina cadente era diventata un centro di spiritualità salesiana dove, ogni anno, passano migliaia di persone.

Cuoco aveva incontrato don Bosco da giovanissimo:

Frequentava l’oratorio salesiano della Crocetta – interviene Enrico Greco, uno degli amici della prima ora – Raccontata che, per il taglio vagamente orientale dei suoi occhi, era stato soprannominato “Willi” anche se il nome non ha a che fare con l’Oriente. Però quell’appellativo gli è rimasto addosso.

Da adulto aveva lavorato per i salesiani, a Valdocco. In particolare si occupava della gestione del teatro e delle case per le vacanze estive.

In quel contesto aveva appreso tante abilità che poi ha usato alla “casetta”, di cui è stato direttore in due tornate – riprende Gillio – Attualmente era in carica, sostituirlo non sarà facile perché, per ogni necessità, il punto di riferimento era lui. Era molto determinato, aveva grandi capacità gestionali e un grande attaccamento alla spiritualità salesiana.

Ricorda anche uno degli ultimi incontri:

Poche settimane fa, per la festa di san Domenico Savio. Ma già si vedeva che non stava bene, che faticava.

La sua scomparsa ha suscitato grande cordoglio. Al rosario nella “casetta” c’erano 500 persone e al funerale la chiesa era piena: col parroco don Marco Norbiato hanno celebrato altri 14 sacerdoti, tra cui il vicario ispettoriale don Michele Molinar e il direttore del Colle Don Bosco, don Thatireddy Vijaya Bhaskar.

Giovanna Colonna collabora nella gestione della “casetta”:

Ho un ricordo personale: un anno fa ho festeggiato qui i miei 60 anni e i 90 di mio papà. Willi si era prodigato come sempre affinché tutto fosse perfetto: con lui la “casetta” era sempre un gioiellino, sapeva abbinare fiori e colori.

Poi descrive il suo rapporto con i pellegrini, che da tutta Italia e anche dall’estero andavano alla casa del Santo ragazzino:

Il suo carattere era molto affabile e alla mano, era sempre disponibile e inoltre aveva una grande competenza: si potrebbe dire che la realtà e la storia salesiane gli scorrevano nelle vene. Tra le sue doti c’era la capacità di mettere le persone a proprio agio, i giovani come gli anziani.

Intervista 1 – Silvia Falcione

Con i miei studenti di terza e quarta liceo delle scienze umane abbiamo affrontato il fenomeno della migrazione spaziando da quella di oggi fino a quella dei loro nonni durante la grande migrazione interna italiana da sud verso nord, in particolare verso Torino e la Fiat.

Ho chiesto loro di realizzare delle interviste libere sulle storie di vita dei migranti che conoscevano. Hanno raccolto storie molto interessanti che vi proponiamo.

Intervista realizzata da Kiara, 16 anni

Questa che scriverò a breve è la storia di un nostro caro amico di origini Albanesi, o almeno amico molto stretto di mio nonno paterno, anch’egli di origini albanesi, che ho conosciuto qualche estate fa, quando sono andata giù in Albania con la mia famiglia, per scoprirlo come paese e conoscere nuovi posti.

Quella che ci racconterà è una storia di vita incredibile, che mi ha fatto riflettere molto, conoscere e capire molte cose…

“Io sono nato e cresciuto in Albania con la mia famiglia, sempre accanto e d’aiuto a loro. Di certo non navigavamo nella ricchezza, anzi, a causa di guerre civili, crise economiche, malattie, carestie, ecc

A quei tempi vi era una povertà assoluta, si lavorava sodo, per potersi permettere luce, gas e pane a tavola…

Sono sempre stato un bambino che studiava, per quanto si poteva, si divertiva con poco, per esempio una cosa che mi piaceva molto era giocare con i miei amichetti a calcio, ero pure bravo eh, inoltre e soprattutto lavoravo molto…

Sin da piccolo aiutavo mio padre nelle faccende riguardanti i nostri campi, come ho detto prima, sono sempre stato presente e d’aiuto alla mia famiglia per tutto.

Fin quando all’età di 17 anni, non decisi di mollare tutto, ed andare via… Non di certo per viaggiare e divertirmi, ma per trovare un lavoro abbastanza remunerativo, così da poter aiutare un po’ economicamente la mia famiglia…

Quindi presi tutto il necessario in uno zainetto, e partii con altri tre ragazzi per la Grecia, a piedi… E siccome vivevo nella parte settentrionale dell’Albania, il tragitto fu abbastanza lungo, infatti ci facemmo ben 5 giorni di camminata.

Il momento che più ricordo di questo viaggio, fu quando giungemmo il confine tra Grecia e Albania. Terribile momento… Perché vi era la polizia, i controlli etc… E noi senza documenti dovemmo fare di tutto per superare questa dogana, senza farci vedere.

Purtroppo due dei miei amici furono avvistati e di conseguenza arrestati… Io invece ce la feci a passare, ma dovetti dividermi dagli altri ragazzi, che non rividi mai più… E da qui, completamente da solo, iniziai a costruirmi a poco a poco una così detta ‘vita’.

Dal superamento del confine, raggiunsi una citta al nord della Grecia, e la prima cosa che feci fu trovarmi un lavoro, in nero ovviamente, perchè non avevo documenti e niente, ero un’immigrato irregolare, fortunatamente conobbi una persona, anch’egli albanese, che mi permise di soggiornare nel suo appartamento…

E rimasi così per un bel po’ di tempo, perchè neanche io sapevo quanto sarei rimasto, cosa ne sarebbe stato del mio futuro, di me ecc.. L’unica mia intenzione e l’unico mio problema era rimanere fin quando non avessi guadagnato abbastanza per tornare dalla mia famiglia…

Continuai così in Grecia per ben sei mesi, fin quando un giorno non mi beccò la polizia greca che mi riportò immediatamente in Albania.

Una volta tornato nel mio paese, ci rimasi per un lungo arco temporale, fin quando un anno dopo non decisi di ritornare in Grecia… Quindi rifeci lo stesso identico tragitto, riuscii a superare il confine e ancora una volta ricominciai da zero…

Continuai così per 2/3 mesi, fin quando un giorno, la polizia beccò me e un mio amico con cui avevo fatto il viaggio.  Questa volta i documenti ce li avevo ma ad ogni modo ci tennero per un po’ rinchiusi, e nel frattempo noi eravamo convinti che ci rimandavano nuovamente in Albania, quando poi non arrivò un poliziotto che ci disse: “Siete liberi”, questo perché, in quegli anni in Albania c’era una brutta guerra civile, e per la nostra protezione, ci permisero di rimanere fin quando non si sarebbero calmate le acque…

Successivamente, a distanza di non molto tempo, decisi spontaneamente di ritornarci, intento a non voler più tornare in Grecia…

Poi però dopo un po’ di tempo, più o meno verso i  vent’anni, iniziai a rendermi conto che per me lì non c’era un futuro, se non costruirmi una vita in cui avrei dovuto faticare come i miei genitori.

Allora decisi di partire per l’Italia… Con mio cugino prendemmo la prima nave e arrivammo in Puglia, dove prendemmo un treno in direzione di una città che conosceva lui. Il viaggio durò abbastanza..  Fin quando non arrivammo a Torino, luogo in cui ricostruì veramente e in modo serio da sotto zero la mia vita…

Inizialmente fummo ospitati da sua sorella, anche mia cugina, giusto il tempo di fare i documenti, quindi ottenere il permesso di soggiorno e trovare un lavoro.

Una volta messo qualche soldo da parte e con i documenti in mano, mi trovai una bella casetta e la affittai… E da lì in poi, mattone per mattone, iniziai a costruirmi una vita.

Ci fui per me e nel contempo per la mia famiglia…  Nel frattempo le cose al mio paese migliorarono, le mie due sorelle si sposarono e io continuai ad andarci ogni estate…

Feci molti sacrifici, ma sono serviti davvero tanto per arrivare dove sono ad oggi.  Sono pienamente cittadino Italiano, ho una bella famiglia, una bella casa, un lavoro,  sono in salute e contento di ciò che ho fatto e continuo a fare.

LA VITA MOLTE VOLTE TI SORPRENDE, e ti fa arrivare dove non pensi neanche lontanamente di poter arrivare…

Maurizio – la Redazione

Maurizio non è più con noi ma è tra noi.
Il tempo passa ma il bene resta e continua a donarsi e con le opere permane il ricordo. Chi ha avuto la fortuna di incontrare Maurizio nel suo percorso di vita conosce il bene che ha fatto; chi non lo ha incontrato beneficia del bene che ha lasciato.

Tutto di Maurizio era naturale e spontaneo: onestà, sincerità e lealtà. Ma la naturalezza con cui viveva questi pilastri della vita li ha conquistati nel tempo, con il continuo allenamento dell’anima, della critica e del confronto.

Credo che Maurizio avesse una solo paura: la banalità, la superficialità, l’indifferenza colpevole verso la società e il patrimonio che la componeva e abitava. Maurizio stava alla polis come l’ape laboriosa nel prato fiorito: lo arricchisce con la sua presenza attiva e attenta, lo fertilizza con le sue idee e le iniziative, lo coltiva con la perseveranza e la convinzione che il bene è indispensabile alla vita.

Grazie Maurizio, a presto in una nuova e bella iniziativa da realizzare nel mondo.

Di Buon Mattino (Tv2000) – Le catacombe di Savinilla a Nepi

Le catacombe di SavinillaNepi

TV 2000, durante il programma Di Buon Mattino, ha presentato le catacombe di Savinilla di Nepi, dedicate ai santi patroni Romano e Tolomeo.

Mons. Pasquale Iacobone, Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, introduce l’argomento.

FARE DEL BENE È IL MIGLIOR STARE BENE – Testimonianza ragazzo di Oratorio

San Domenico Savio, giovane, santo, felice.

Ma la santità è cosa di altri tempi, di altre generazioni. In questi tempi non si può fare del bene perché non si vive bene.

È davvero così? Proviamo a domandarlo ad un ragazzo di Oratorio, Simone:

Secondo te san Domenico Savio stava bene, era felice?

FARE DEL BENE È IL MIGLIOR STARE BENE – Testimonianza Nazarena

San Domenico Savio, giovane, santo, felice.

Ma la santità è cosa di altri tempi, di altre generazioni. In questi tempi non si può fare del bene perché non si vive bene.

È davvero così? Proviamo a domandarlo a una Nazarena, Graciela.

Graciela, cosa significa pregare per il bene e per la santità?