QuartaGiornataCatacombe_pieghevole_web don Pasquale Iacobone
Di seguito il pieghevole PDF dedicato alla 4° giornata delle catacombe a Roma per il 16 ottobre 2021.
Di seguito il pieghevole PDF dedicato alla 4° giornata delle catacombe a Roma per il 16 ottobre 2021.
Una delle forme con cui il Mistero si fa presente all’uomo e lo raggiunge in modo indissolubile a sé è attraverso la testimonianza di coloro che vivono intimamente legati a Lui come il tralcio alla vite (Gv 15,5), in cui ogni gesto e ogni parola sono mossi e alimentati dalla linfa del Suo amore e ne rappresentano il segno della Sua presenza. È infatti attraverso i testimoni, stando alla loro sequela, per il fascino della loro vita, degna di essere vissuta, perché aperta ultimamente alla Speranza che va oltre la morte e l’annichilimento del corpo, che la fede si perpetua con la sua credibilità. A chi il Mistero ha dato la grazia (un termine questo che è andato in disuso nel lessico usuale contemporaneo, sostituito dal termine “fortuna” che non ne traduce pienamente il senso) di incontrare e conoscere un amico come Palmerio, di condividere con lui momenti di vita, gli ha voluto ultimamente offrire il dono della Sua presenza, attraverso il fascino di una vita vissuta nella semplicità radicata, paradossalmente, nella profonda conoscenza del suo fine ultimo a cui si era conformato: conoscere, amare e servire Dio in questa vita per goderlo eternamente nella vita futura dopo la morte. Egli è stato tra coloro che si pongono nel rapporto con la realtà non unicamente sul piano fisico-materiale ma su un piano che va oltre il contingente, lo interpreta come creatura chiamata alla vita da un disegno provvidenziale di amore e lo trascende: tutto in lui era riverbero di questa verità che spingeva e richiamava gli altri ad assaporare il gusto delle cose semplici che per lui erano essenziali. Sapeva in questo modo rapportarsi con tutti, con ogni categoria di persone, con gli intellettuali e con i meno colti, con i ricchi e i meno abbienti, avendo una predilezione particolare per i poveri e i bisognosi. Conosceva bene l’arte del farsi stimare da tutti: da buon allievo di Don Bosco era riuscito a cogliere e a tradurre praticamente il suo invito ad entrare in empatia col prossimo.
Palmerio Sanna, questa era la sua identità anagrafica, era nato il 2 marzo 1927 a Ghilarza, un paese dell’alto oristanese, dove è vissuto da bambino nel contesto di una società a economia agropastorale. È stato allievo di Don Bosco a Penango negli anni 1943-1946, anni difficili per i pericoli e le difficoltà derivate dalla guerra in atto, per la quale gli allievi, dopo l’armistizio, furono trasferiti a Gaeta. Rientrato a Ghilarza con i segni postumi lasciati inevitabilmente dagli avvenimenti drammatici in un animo particolarmente sensibile, passò del tempo a riprendersi nella condizione di normalità e ad avviarsi verso la vocazione per cui sentiva di essere chiamato: l’insegnamento. Laureatosi in pedagogia, successivamente ha ricoperto per 25 anni l’incarico di Direttore didattico nella provincia di Oristano. Andato in pensione, si è dedicato agli studi in teologia laureandosi col massimo dei voti e, nel tempo libero, ha avviato con la moglie Ofelia delle opere di assistenza volontaria verso i bisognosi: attività che ha dovuto interrompere per cause di salute, sopraggiunte qualche anno prima di salire in Cielo, il 16 maggio 2021. La sua vita la sentiva legata provvidenzialmente a Don Bosco, che considerava il più grande pedagogo del XIX secolo e per il quale nutriva una stima riconoscente per i tanti benefici ricevuti da lui. Il suo rammarico era la lontananza che lo divideva dai rapporti diretti e prossimi col mondo salesiano. Quando poteva, però, non mancava mai agli incontri regionali degli exallievi, con una partecipazione attiva e carica di proposte costruttive in uno spirito di fraternità. Si era reso atteso anche alle vacanze di Gressoney dove, in quelle volte che era venuto, aveva saputo irradiare il fascino di una personalità unica per humour e simpatia. Mi piace ricordare, in ultimo, ciò che diceva quando veniva a Gressoney, entrando nella casa e dirigendosi verso la cappellina del Santissimo: “Innanzitutto salutiamo il Padrone di casa”, che per me rappresentava la sintesi di un trattato socio-pedagogico-morale. Terrò sempre vivi nel cuore, come un tesoro, questi ricordi del mio amico Palmerio. Grazie!
Rondini pazzerellone e tanto caciarone,
sempre vi rivedo volentieri
mentre nel cielo cittadino
intrecciate perenni voli, rincorrendovi
a rapide schiere incrociate.
Rassomigliate a bimbi vivaci
che mai si danno pace
fino a tarda sera
in un gioco senza fine.
Lo stridulo vocio non passa inosservato
a chi sa guardare in alto
ad osservare i tetti sfiorati
a slalom tra antenne e camini.
Mentre rapita vi ammiro,
un po’ di nostalgia mi assale
e riaffiorano i ricordi di estati
di altri tempi e di altri luoghi,
di ore felici vissute sotto un cielo di montagna,
nel mio caro paese natio.
Adriana Perillo
Non bastano i programmi a lungo termine e nemmeno le intuizioni sul rapido evolversi dei costumi. L’oltre cristiano supera gli orizzonti umani inoltrandosi nel mistero rivelato dall’eternità.
Immersi nella storia che ci trascina con le sue infinite ombre e luci, il nostro sguardo, troppo sovente, punta solo sull’immediato, tirandosi dietro anche l’anima.
È l’antico “carpe diem” – cogli il momento che fugge – che s’impadronisce dei nostri desideri e detta le leggi dell’operare.
Eppure tutto il messaggio evangelico è impostato su questo mirabile guardare oltre il tempo che inghiotte i giorni con la sua lunga sequenza di esperienze più o meno infelici della vita.
Gesù lo insegnò ai suoi discepoli con un gesto di infinita tenerezza: sul Tabor della Trasfigurazione aprì loro una luminosa finestra perché imparassero a vedere oltre le tenebre dell’imminente tragedia della Croce che li avrebbe sconvolti. Fu un momento di paradiso che entusiasmò Pietro a tal punto da fargli dire cose un tantino insensate. Per poco, poi la ridiscesa al piano li avrebbe ricondotti alle realtà umane del Getzemani e del Golgota.
La Pasqua di Risurrezione è l’annuncio più splendido che Dio volle fare all’umanità che ama: un traguardo di luce in cima alla salita, per quanto faticosa, la gioia inesprimibile di una vittoria assoluta non solo sul peccato e sulla morte, ma pure sulle tante illusioni terrene rivestite di felicità nelle quali si rifugiano anche non pochi credenti, consumandovi la vita. È l’avverarsi della Promessa.
Quando non si guarda oltre, la vita può trasformarsi in una angoscia latente anche per chi, in possesso di beni e di successo, s’impingua di cose che passano, rimuovendo a fatica, con nuove e mai sufficienti distrazioni, l’idea del tempo in cui tutto finirà. Una cupa rassegnazione per gli altri, nel tormento delle privazioni e della sofferenza, della morte, del mistero, del nulla: tenebra assoluta in muta solitudine.
Guardare oltre le vicende belle o tristi, è proprio del vero discepolo di Cristo. È l’alba luminosa della Pasqua che ne illumina la vita, ne allarga l’anima, spalanca le porte alla speranza e con essa all’amore operoso per chi, in maniera diversa, si fa compagno del suo cammino.
Lo dicono i santi e lo sussurrano i nostri “vecchi”, debilitati dall’età e dalle fatiche ma abituati a guardare oltre, lo ripetiamo noi che ne abbiamo raccolto i preziosi insegnamenti: “un pezzo di Paradiso aggiusta tutto” sul ritmo del canto del salmista: “Signore, il tuo volto io cerco, non nascondermi il tuo volto”.
Oggi più di ieri l’uomo, afferrato da una presunta onnipotenza tecnologica, ha bisogno di “allenarsi” a spingere oltre lo sguardo, nella luce della fede, per riappropriarsi della più grande promessa divina: la risurrezione che dà senso non solo alla appartenenza a Cristo, ma diviene inesauribile energia per affrontare, senza inutili contorsioni, l’avventura della vita che, qualunque essa sia, ha un immenso valore proprio per questa sua vocazione all’eternità, da risorti con Cristo, il Primo dei Risorti.
Guardare oltre, dunque, per scorgere le cose grandi che ci attendono e ridimensionare, al confronto, le piccole cose che riempiono i nostri giorni e rapidamente passano.
Padre buono, ti prego:
dammi un’intelligenza che ti comprenda,
un animo che ti gusti,
una pensosità che ti cerchi,una sapienza che ti trovi,
uno spirito che ti conosca,
un cuore che ti ami,
un pensiero che sia rivolto a te,degli occhi che ti guardino,
una parola che ti piaccia,
una pazienza che ti segua,
una perseveranza che ti aspetti– San Benedetto da Norcia
Signore, aiutami a sapere leggere e pregare la tua parola, perché spesso non la comprendo e se voglio pregare non riesco. Eppure so che è bello ascoltare la tua voce e parlare con il tuo Spirito.
Aiutami a capire, Signore, sono povero e non ho nulla. Vorrei fare tanto per te e faccio poco, anzi non faccio niente. Aiutami a pregare, insegnami le parole più semplici, come se nascessi in questo momento.
Fino a qualche anno fa aprivo la buca delle lettere con un certo interesse, spinta dalla curiosità di conoscerne il contenuto.
Non mancavano bollette da pagare o multe per infrazioni stradali, ma spesso trovavo lettere di amici, annunci di matrimoni o nascite e anche di morti. Poi tante cartoline. Queste ultime mi trasmettevano gioia perché i mittenti mi informavano di essere in vacanza, quindi si divertivano. Le foto mi parlavano di paesi esotici e meravigliosi e così sospiravo e sognavo.
Anche io, ovunque andassi in viaggio, inviavo numerose cartoline e la più bella la spedivo a me stessa come ricordo. Non amando fotografare, acquistavo cartoline di lavori artistici importanti per collezione.
Poi è arrivato il cellulare e questa abitudine è tramontata perché ora si mandano messaggi rapidi selfie, video: ora siamo sempre ”connessi“. Tutto è veloce, rapido e in contemporanea. La ginnastica più praticata è scattare foto ovunque: sui mezzi di trasporto, per strada, in fila, in treno… Le braccia sono sempre in posizione alta sulla testa per carpire ogni evento con un clic. Questo oggetto è diventato il compagno insostituibile per miliardi di individui e persino i bambini sono diventati abili smanettatori di cellulari.
Certamente è stata un’invenzione rivoluzionaria della vita sociale sotto molti aspetti perché risolve situazioni e diventa un aiuto prezioso. Lo abbiamo provato durante la chiusura per la pandemia; infatti il cellulare è stato utile per il lavoro, interventi di pronto soccorso, la scuola e altro. Insomma il suo uso molteplice può essere utile ma non mancano aspetti negativi.
Oggi, quando apro la buca delle lettere, trovo solo carta: riviste, pubblicità, richieste di aiuti da molti enti onlus o finti tali. Vengono usate foto di bimbi bisognosi, denutriti, malati.
Le loro immagini toccano il cuore ma possono nascondere truffe ai danni delle persone generose e caritatevoli.
Quanta strage di alberi per la carta usata e quale spreco di denaro!
La ritroviamo poi nei bidoni della spazzatura!
Eterno. Una parola limite. Una parola per definire l’indefinibile. Una parola astratta per eccellenza. Per concepirla bisogna possedere il concetto di tempo che è la dimensione più astratta della vita umana. Infatti i bambini non la posseggono, è difficile spiegarla e spesso scambiano il mattino con la sera.
Ma quando l’umanità ha cominciato a concepire un tempo Eterno? Un tempo che supera la vita terrena e che va oltre?
In realtà piuttosto presto. Ovvero quando ha cominciato a seppellire i morti. I primi umani a farlo non sembravano ancora completamente umani. Erano gli uomini e le donne di Neanderthal che popolavano l’Europa fino agli Urali durante l’ultima era glaciale terminata la quale si sono estinti. Per capirci quelli del cartone L’ERA GLACIALE 1. Vissero quindi nel paleolitico medio, compreso tra i 200 000 e i 40 000 anni fa. Vivevano in comunità di anche 50 persone e costruivano villaggi mobili poiché erano nomadi e cacciavano i mammut in gruppo con strategie di caccia molto avanzate. Sono stati i primi homo sapiens e anche se non potevano articolare parole per motivi fisiologici, avevano un cervello più grande e pesante del nostro e con esso hanno elaborato una prima idea di una vita dopo la morte. Lo si deduce dal fatto che sono i primi nostri antenati a seppellire i loro morti. Prima i corpi nudi venivano lasciati in natura laddove erano trapassati, in pasto alle bestie feroci. Invece i Neanderthal li raccolgono li portano nel fondo delle grotte che abitavano, scavano una piccola buca nella terra e ve li depongono in posizione fetale come fossero bambini, insieme ai loro oggetti personali e li cospargono di petali di fiori. Poi li ricoprono di uno strato di terra e li lasciano a riposare. E così sono stati ritrovati dai paleoantropologi.
Chissà cosa pensavano.
Forse che la morte fosse un sonno e che prima o poi il morto si sarebbe risvegliato e allora andava protetto. Una prima forma di pensiero astratto che li portava a immaginare un’altra vita. Un primo passo verso il concetto di eternità teneramente cosparso di petali di fiore.
Questo semplice testo ci aiuta a pregare a partire dagli elementi della natura che durante un mese spesso dedicato alle vacanze come luglio dovrebbero essere più vicini alla nostra vita.
Ma spesso i giorni di vacanza sono pochi e nell’ansia di sfruttarli al massimo ci lasciamo prendere dalla fretta e non ci fermiamo a guardare. A guardare la spiaggia la riva del mare i campi i volti delle persone che amiamo…. e a collegarli con le mostre emozioni per vivere momenti profondi e rigeneranti senza ai quali si torna al lavoro con la sensazione di essere PIÙ stanchi di prima.
A questo in fondo serve la preghiera. A prendersi del tempo per Dio e per noi.
Signore, vieni a passeggiare sulla spiaggia dei nostri pensieri.
Signore, vieni tu a rispecchiarti nel pozzo delle nostre emozioni.
Signore, vieni ad affollare le strade delle nostre solitudini.
Signore, vieni tu a lambire la riva delle nostre stanchezze.
Signore, vieni a seminare i campi delle nostre speranze.
Signore, vieni tu a tergere i volti dei nostri dubbi.
Signore, vieni a marchiare la cera delle nostre debolezze.
Signore, vieni tu ad ardere la legna dei nostri egoismi.
Signore, vieni ad irrorare il deserto delle nostre passioni.
Signore, vieni tu a solcare il mare della nostra fiducia.
Signore, vieni tu a spezzare il pane della nostra gioia.
Signore, vieni ad abitarci.
Amen!
“Signore, se tu sei dappertutto perché io sono altrove?”
Se lo chiedeva Madaleine Delbrel (1904 – 1964) nel massimo della sua crisi spirituale. Atea, lucida e determinata, appena diciassettenne scrive nella sua indagine su Dio che ogni religione è un assurdo; tutto quanto è relativo nella vita. Anche l’amore per il quale non vale la pena impegnarsi.
Ma 18 anni si innamora di Jean, un ragazzo splendido. Un amore vero e sublime. Un giorno Jean decide di lasciarla per entrare in un convento di Domenicani. Per Madaleine furono giornate buie, tormentate dal pensiero di questo Dio che le aveva rubato Jean.
“Se Jean mi ha lasciata per appartenere a Dio chi è mai questo Dio?”
Provò a pregare. Rimase “abbagliata” da quel Dio che aveva dichiarato “morto” per sempre. Dio era lì, da tanto tempo; il suo cuore, quello si, era “altrove”. Non entrò in convento, la strada sarà il suo monastero, tra i più poveri e soli.
Può accadere a tutti di attraversare tempi di dubbi, eventi oscuri che gettano ombre sulle nostre sicurezze religiose. E la tentazione dell’abbandono può sfociare, quanto meno, in un vago senso di Dio, che non parla la vita nel veloce susseguirsi dei giorni. Ci sono talvolta confusi ricordi del catechismo della fanciullezza, ma l’esistenza, sovente, si discosta: altro e lui, altra e la vita. È dappertutto Dio, ma così lontano…
Eppure il canone sacro dei salmi afferma:
“Come andare lontano da te? Se salgo in cielo, Tu sei là; se prendo il volo verso l’aurora e mi poso all’estremità del mare: anche la mi afferra la tua mano. Dico alle tenebre: “Fatemi sparire”, alla luce intorno a me: “Diventa notte!” ma nemmeno le tenebre per te sono oscure e la notte è chiara come il giorno… sei Tu che mi hai plasmato il cuore e mi hai tessuto nel grembo di mia madre…”
(Salmo 138)
Noi siamo altrove fin quando il cuore non lo scoprirà come amore che crea, sostiene, guida, insegna, perdona, abbraccia e apre a quella speranza che va oltre l’affanno delle nostre giornate.
Sant’Agostino trentenne brillante, ricco, socialmente affermato, incontra Dio solo sulle strade del suo amore. Scrive:
“Tardi ti ho amato, bellezza così antica e sempre nuova, tardi ti ho amato. Sì perché tu eri dentro di me e io ne ero fuori…”
(Conf. X,27 ss).
Dio è dappertutto: basta lasciarsi guidare dallo stupore per scorgerlo nel mistero dell’alba, nell’incanto di un tramonto, nel fiore che sboccia, nel frutto che matura, negli occhi di un bambino, nella dolcezza di una mamma in attesa, nelle rughe di un anziano, nella pioggia che nutre e disseta, nella foresta che cresce, nell’uomo che si commuove, nel respiro del morente, nelle nascoste pieghe dei nostri sogni.
Quel Dio lontano, è così vicino da lasciarsi consumare nel mistero eucaristico, che si svela pienamente al cuore che accetta di essere amato da lui.
“Ci hai fatti per te Signore, esclama ancora Agostino, e il nostro cuore non ha pace fin quando non riposa in Te”
(Conf. l,1)
Nella mia parrocchia circa 300 volontari prima della pandemia si avvicendavano giorno e notte nella cappella dedicata all’adorazione perpetua, suscitando in me sentimenti di ammirazione e di commozione ed ora la buona pratica ė ripresa in parte, in controtendenza rispetto ai tempi attuali in cui non c’è più spazio per pregare, riflettere, fare silenzio. Il benessere, il consumo, il godimento
sono imperativi categorici della comunicazione di massa e siamo diventati tutti più pretenziosi, inquieti, aggressivi, ancor più per la reclusione forzata.
Il retore africano Tertulliano leggeva a tratti nello sguardo degli animali la riconoscenza nei confronti del loro Creatore. Se è vero, come sosteneva Kierkegaard, che pregare è il respiro dell’anima, si può affermare che con il loro respiro anche gli animali elevano una lode a Dio. A maggior ragione l’uomo non può far mancare il suo slancio consapevole unendosi agli altri esseri viventi.
“Non di solo pane vive l’uomo”
recita Deuteronomio 8,3;
per la creatura umana è necessario un alimento che discende dal cielo e dà vita allo spirito.
In contrasto con il grigiore della nostra società in cui la malattia dell’indifferenza da Dio si trasmette a tutti i valori, impariamo a centellinare ciò che abbiamo ricevuto, a partire dalla vita stessa, senza chiedere nulla, riscoprendo la semplicità e l’essenzialità. La “preghiera d’amore” si fa non per ottenere una grazia, ma per invocare l’avvento del regno di Dio nella storia e contemplare l’azione segreta dello Spirito nei cuori. Secondo il monaco San Silvano è la preghiera più alta e pura e ha in sé un’energia dirompente capace di ridurre l’entità della cattiveria umana e di frenare la corsa al male.
Giunti al fondo non possiamo che risalire: forse proprio il senso di nausea e di insoddisfazione è il primo gradino di un ritorno a Dio nella ricerca di una maggiore autenticità.
“Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò”
(Is.66,13).
Dio ha non solo un volto paterno ma anche materno e ci sorride quando fissiamo lo sguardo su di Lui.